
La nostra indimenticabile gita al Castello Ruffo di Amendolea
Oggi, 24 novembre 2024, è stata una giornata carica di emozioni, storia e bellezza condivisa con mia moglie Elena, mia sorella Rosa e mio cognato Luigi. Il Castello Ruffo di Amendolea, arroccato nel cuore dell’affascinante area grecanica calabrese, ci ha regalato un’esperienza quasi magica, tra mura antiche e panorami mozzafiato.

L’arrivo al castello
Dopo un percorso immerso nella natura selvaggia della vallata, siamo arrivati ai piedi del castello, dove una lunga scalinata ci ha condotti verso il passato. Salendo, il vento ci accarezzava il viso, mentre il sole illuminava le pietre secolari, facendole brillare come se volessero raccontarci la loro storia. Elena, con la sua curiosità contagiosa, non smetteva di fotografare ogni dettaglio, mentre Rosa e Luigi discutevano animatamente sulle origini normanne della fortezza.

Tra torri e leggende
Appena entrati, ci siamo ritrovati davanti ai resti imponenti di quella che un tempo era una maestosa cisterna. Immaginare i suoi abitanti medievali riempirla d’acqua, tra difficoltà e ingegno, ci ha fatto sentire un profondo rispetto per chi ha vissuto qui secoli fa.
La parte più emozionante? La grande aula centrale, dove un tempo si svolgeva la vita del castello. Oggi ricoperta d’erba e pietre, conserva ancora le tracce delle tre finestre rivolte a est, dove le sentinelle scrutavano l’orizzonte in cerca di pericoli. Rosa ha scherzato: “Chissà se qualcuno di loro si è mai annoiato, con tutta questa pace intorno!” Ma io ho pensato che, in realtà, doveva essere un compito gravoso, con le incursioni nemiche sempre in agguato.
E poi, la torre con l’ingresso al primo piano! Luigi, appassionato di architettura militare, ci ha spiegato con entusiasmo l’astuzia del ponte levatoio, progettato per tenere lontani gli invasori. “Geniale!” ha esclamato, mentre Elena rideva del suo tono da stratega medievale.




La cappella e il mistero della Madonna senza testa
Tra i ruderi della cappella, ci siamo commossi nel pensare ai 300 abitanti del castello che qui pregavano, cercando conforto tra queste mura. La scoperta del bassorilievo e della statuetta della Madonna decapitata ci ha affascinati. “Ma perché la testa era stata rifatta rivolta a sinistra, se l’originale guardava a destra?” ha chiesto Elena, con quel suo sguardo da detective. Forse un errore, un simbolo perduto, o semplicemente il tempo che gioca brutti scherzi.

Il pranzo all’agriturismo "Il Bergamotto"
Dopo tanta storia, il pranzo è stato una festa di sapori genuini. Seduti in quella sala rustica, tra i profumi della cucina calabrese, l’atmosfera era già perfetta, abbiamo assaggiato piatti tradizionali, salumi locali, accompagnati da quel pane fragrante che solo qui sanno fare. Luigi, come al solito, si è dovuto astenere dal bere, ma questo non ha fermato il nostro entusiasmo. Elena, con quel suo sorriso furbo, incitava Rosa: “Dai, un goccio solo! Non fare la timida!” E Rosa non si è fatta pregare, ha ceduto, lasciandosi tentare dal vino.
Io? Appena ho visto la bottiglia di “La Tacca del Lupo” dell’azienda Altomonte, ho pensato: “Oggi si beve bene.” E infatti, quel Palizzi (un vino rosso corposo, tipico di questa terra) è stato una rivelazione: un gusto fruttato intenso e quel retrogusto che ti rimane addosso come un ricordo piacevole. Luigi ci guardava con invidia mentre sorseggiava la sua acqua, ma almeno si è consolato con il cibo casereccio.




Tra un assaggio e l’altro, il vino ha iniziato a sciogliere le lingue. Rosa ha iniziato a raccontare storie di famiglia che nemmeno io ricordavo, mentre Elena rideva a crepapelle.
E io, tra un sorso e l’altro, ho pensato che questi sono i momenti che contano davvero: il cibo buono, il vino sincero e le persone giuste.
Un brindisi alla calabresità
Alla fine, abbiamo alzato i calici (o meglio, io, Elena e Rosa), dedicando il brindisi a Luigi, che ci guardava con rassegnazione divertita. “Alla Calabria, alla famiglia… e al prossimo giro, Luigi, facciamo bere pure te!”
